Foglie croccanti. Un cuore che si scioglie in bocca. E quel colore dorato scuro che sul piatto lo fa sembrare una corona antica. Il Carciofo alla giudìa è di gran lunga uno dei miei spezzafame preferiti, non solo quando mi trovo a Roma. E contrariamente a quanto si creda, non è piatto così scontato: serve conoscere qualche trucco, non aver paura di qualche schizzo e, soprattutto, serve procurarsi il carciofo giusto!
Il carciofo romanesco, niente imitazioni
Carciofo e cucina romana è un parallelismo oramai scontato. Gran parte del merito è da attribuirsi al tenero carciofo romanesco, detto “mammola” o “cimarolo” per via della quasi totale assenza di spine. Sodo, ben serrato e rotondo, questo ortaggio dal verde che sfuma delicatamente verso il violetto si coltivava originariamente tra Cerveteri, Campagnano e Ladispoli, dove fino alla prima grande guerra era confinato agli orti familiari. Fu la Riforma agraria che ne estese la produzione anche al Viterbese ed alla provincia di Latina. Nel 1950, per anticipare la stagione balneare, un pugno di ladispolani riuniti alla trattoria “Tripolina” s’inventarono la Sagra del Carciofo romanesco: un successo che non solo calamitò a Ladispoli espositori, stampa e tanti turisti ma aprì le porte dei grandi mercati del Centro Nord ai coltivatori. Le varietà di allora erano erano solo due: la precoce “Castellammare” e la tardiva ma più composta “Campagnano“, le stesse tutelate dal 2002 dal disciplinare che disciplina l’IGP del Carciofo romanesco.
Ma da dove viene l’appellativo “Carciofi alla giudìa”?
Qualcuno sostiene che l’appellativo “alla giudìa” provenga dalla presenza di questa ricetta sulla tavola che imbandivano le massaie ebraiche al termine del Kippur, la festa dell’espiazione ebraica durante la quale è proibito toccare cibo. Altri menzionano il carciofo tra gli ingredienti della tavola pasquale ebraica. Non posso darvi notizie più precise. Forse più probabilmente la verità sta nel mezzo, in quel misto di tradizioni e ricettari familiari che costituisce il patrimonio culinario giudaico. Come ti ho già raccontato in occasione di Taste Firenze a proposito dell’allevamento di oche in Lomellina le comunità ebraiche, costrette a spostarsi per secoli, erano solite modellare la propria cucina sulla base delle materie prime che trovavano sul posto, adattandole ai principi Kosher ed elaborando ricettari familiari che hanno indubbaimente attinto e ceduto alle cucine locali, in un patrimonio d’inestimabile valore ma anche di difficile discernimento ed aggregazione.
Pensare che proprio di recente il Carciofo alla giudìa è stato al centro delle cronache gastronomiche, quasi quanto la pizza di Cracco in Galleria. Lo ha investito la decisione del Rabbinato di Israele di chiedere ai ristoratori romani la rimozione dai menù. Il problema? Il cuore del carciofo risulterebbe incline ad essere facilmente infestato da vermi. Per questo motivo impiegarlo nella cucina ebraica richiederebbe una ispezione approfondita visto il divieto, imposto appunto dai principi Kosher, del consumare insetti. Difficile a credersi se si ha un minimo di dimestichezza coi carciofi: i ristoratori romani hanno infatti prontamente replicato che le mammole impiegate nella ricetta tradizionale possiedono una corolla talmente stretta da impedire qualsivoglia annidamento di vermi, insetti o simili. Tuttavia la decisione del Rabbinato di considerarli un rischio non è ancora stata sospesa: che il “Carciofo alla giudìa” cambi nome in un prossimo futuro? Lo dubito.
La ricetta dei Carciofi alla Giudìa
Croccante fuori, tenero dentro. Sembra una réclame ma c’è molto di vero. Anzitutto la maestria nel “capare” i carciofi, materia in cui le massaie romane sono da sempre particolarmente esperte: a farsi dalla base con un coltellino affilato si taglia la parte più dura delle foglie e via via, roteando il carciofo, si arriva a dargli una forma sferica. Non c’è bisogno di eliminarne due terzi come per altre ricette: per fortuna la frittura è un metodo capace d’ammorbidire anche le parti più dure. Forse anche per questo la ricette ebbe tanto successo in tempi di relativa povertà.
In generale il consiglio è quello di affidarsi prima di tutto alle mani: cercate di spezzare le foglie: la parte che viene via è quella coriacea che in bocca vi farebbe “ciancicare” – tanto per dirla come direbbe mia nonna romana! – pertanto siate un pochino avari e tenetevi un margine d’errore. Poi pulite il gambo col medesimo coltello, stando attenti a togliere solo la corteccia esterna. Immergete via via i carciofi in acqua e limone: non vorrete che diventino neri prima della cottura, vero?
Al momento di utilizzarli scolateli, arraffateli per il gambo e sbatteteli con vigore sul tagliere o sul tavolo di cucina. Si devono aprire come un fiore che sboccia a primavera. Col l’aiuto dello stesso coltellino rimuovete bene il “pelo” interno, ovvero il fieno che ogni carciofo contiene al suo cuore, salateli, pepateli e scaldate abbondante olio in un tegame per la frittura. Che li vogliate o meno friggere due volte, quella che vi do è la ricetta comparsa nel 1966 ne la “Strenna dei romanisti” a cura di Secondino Freda, citato da Giuliano Malizia nell’opera incompiuta di Livio Jannattoni, uno che di cucina romana insomma, avoja se se ne intendeva!
Per sapere se l’olio era al punto giusto mia nonna faceva la prova dello stuzzicadenti: immergeva la punta e se si formavano bollicine voleva dire che l’olio era pronto. Per fortuna oggi ci sono anche i termometri che ci vengono in soccorso quindi immergete i vostri carciofi pochi alla volta e non abbiate paura degli schizzi. Se li avete salati tenetevi pronti a spostarvi: quando di mezzo ci sono olio e sale, il primo schizza sempre. A questo punto vale il consiglio di Freda: quando le parti esterne diventano di color oro scuro dovete spruzzare con una mano bagnata poche gocce di acqua fresca nella pentola, stando ben attenti agli schizzi. Questo per provocare quel crepitio che fa diventare le foglie croccanti, principale caratteristica dei Carciofi alla Giudìa. Tirateli fuori dopo qualche istante, sgocciolateli e serviteli caldi: i Carciofi alla giudìa non si riscaldano, mai.
Una ricetta in versi per il Carciofo alla giudìa
Vi lascio con uno stornello speciale, composto da quell’eclettica personalità che fu Luciano Folgore, scrittore ma anche giornalista, autore teatrale e com’è nella migliore tradizione romana anche compositore di versi popolari, favole e parodie. Di lui si ricordano soprattutto le ricette in versi, raccolte in un volume che da anni cerco senza successo tra i banchi dei venditori di libri rari della Capitale. Il volume s’intitola “Romani a tavola“: qualora doveste avere notizia di una copia disponibile, una mail è assolutamente gradita!
Carciofi alla giudia
Si prendono carciofi romaneschi
grossi, teneri e freschi,
e si levano lor le prime foglie
poscia a quelle che restano si toglie,
mediante un affilato coltellino,
la parte dura per lasciar la molle.
Dopo aver tornito per benino
le panciute corolle,
si immergono nell’acqua d’un catino,
dal succo di limone acidulata, poi si dà lor col panno un’asciugata,
si schiacciano un pochino sul tagliere,
si condiscon col pepe e col sale,
si mettono a giacere nel tegame ospitale
e immerse in abbondante olio d’olivo
si fanno cuocer sopra un fuoco vivo.
A cottura ultimata troveremo
che il carciofo somiglia a un crisantemo
dalla corolla tonda e spampanata;
allora con la mano
spruzzeremo (tenendoci lontano)
sopra l’olio bollente acqua gelata
e il carciofo nell’olio scoppiettante
presto diverrà d’oro croccante.
A questo punto il piatto è bello a posto
pronto a dar molti punti al pollo arrosto,
al timballo, al budino, allo sformato,
ed ogni morto appetito
verrà rimesso a nuovo e invigorito
ché tale piatto è (chi lo nega ha torto)
roba da far risuscitare un morto.
Questi sono i carciofi alla giudìa
dal torso snello e dal sapor gustoso
chiamati in romanesco ‘sciccheria’;
dan lustro e vanto alla gastronomia,
riconcilian la sposa con lo sposo,
ammansiscono la suocera più arpìa,
e a pranzo, a cena, a casa e all’osteria,
oro croccante, amor d’ogni goloso,
questi sono i carciofi alla giudìa.